DESIGN ANONIMO: IL GENIO È NELL’ORDINARIO

4 OTTOBRE 2024

l’articolo è stato pubblicato sull’ultimo numero de “Il Notiziario dei Periti Industriali” dell’Ordine di Como.

Di Mirko Bellò Caronti
Designer / Docente al Politecnico di Milano / Perito industriale

Dal leggìo per i musicisti alle forbici del sarto, dall’ombrello alla zolletta di zucchero. Come si creano gli oggetti che ci accompagnano ogni giorno

In un mondo prevalentemente industriale, dove la figura del designer si è ritagliata una posizione predominante per lo sviluppo di nuove forme, concetti o servizi, ognuno ha a che fare quotidianamente con oggetti “comuni”, che non risaltano per il valore estetico, il brand o l’autorevolezza di una firma. La realtà commerciale, italiana ed internazionale, propone ai mercati, accanto agli oggetti d’autore (spesso semplicisticamente definiti “oggetti di design”), dove spicca il nome di un designer affermato o di un’azienda rinomata, “cose” che, sottovoce, accompagnano e migliorano la nostra vita ogni giorno; elementi che vediamo come scontati, ma non per questo meritano un ruolo minore.

Gli “anonimi”, comuni e funzionali
Siamo nel campo di quello che la storia recente ha definito “Design Anonimo”. Sotto questo nome si colloca un grande ed eterogeneo sistema di prodotti-servizi dove spesso non è riconoscibile l’autore e, a volte, neanche l’azienda produttrice. Quel “prodotto-servizio” dove il valore estetico non prevale sull’aspetto funzionale o dove la forma non valorizza il concetto, ma ne rappresenta una parte. Una moltitudine di oggetti d’uso quotidiano è anonima dal punto di vista del progetto: non conosciamo il nome di uno o di più designer, perché non specificato o per mancanza di documentazione. Questo non significa che siano senza un autore, perché ogni prodotto artigianale o industriale che sia, è necessariamente il risultato di un iter progettuale e, pertanto, è opera umana. Quando, nel 1982, Umberto Eco parla di “design inconscio” prende le distanze da quelle che la critica impropriamente definiva opere di “design selvaggio”. Si tratta di artefatti a larga diffusione cui il plus-valore sta nel soddisfacimento di bisogni e nell’agevolare condizioni d’uso abituali; oggetti funzionali piuttosto che di valore estetico. Bruno Munari in “Da cosa nasce cosa” del 1981 parla di “forme spontanee” e di essenzialità formale e mai banale. Il grande designer italiano ha elencato una serie di oggetti comuni, elevandoli a progetti di design d’eccellenza, come il lucchetto per serrande, il seghetto per la legna, il leggio a tre piedi per musicisti, le forbici da sarto, la lampada da officina, il fiasco, l’ombrello. Volendo proseguire nella lista potremmo citare il contagocce, la matita, il cono gelato, la lampadina, la bustina da tè, il cerotto, la zolletta di zucchero, il temperino, il martello, la siringa, ma anche servizi come il codice a barre, la segnaletica stradale e tantissimo altro ancora che secondo Munari e moltissimi altri esponenti del mondo del design meriterebbero un “Compasso d’Oro ad ignoti”.

Pensati e creati per tutti
Citando i Bluvertigo, alla domanda “se non ci fossero i funghi, riusciresti ad immaginarli?” la risposta sembrerebbe scontata. Oggi, guardando ciò che la creatività umana ha saputo immaginare, verrebbe da dir di sì, varrebbe la pena crederci. Qualcuno ha immaginato tutti questi oggetti, qualcuno li ha ideati, qualcun altro li ha industrializzati.
Il “Design Anonimo” non è mai kitsch, è sistema, strumento utensile, servizio, è pura funzione. È sempre esistito ed è sempre stato in simbiosi con l’uomo, diventando anche protagonista, seppur in maniera riservata e nascosta, del suo sviluppo industriale e sociale. Tutti noi ne siamo proprietari, fruitori e inconsapevoli collezionisti; è nei nostri ricordi, nelle nostre foto e nelle nostre case, ma forse pochi se ne rendo conto.
Quanto sia giusto dibattere sul “Design Anonimo” ed elevare questi prodotti alla definizione di “oggetti di design”, promuovendone i significati, portandoli alla ribalta è, ancora oggi, motivo di contrastanti opinioni. Al riguardo molti storcono il naso perché sono dell’idea che, così facendo, si rischia di snaturarli dalla loro dimensione di “cose comuni di ogni giorno”, spostando l’attenzione sulla magnificenza di tali intuizioni e non sulla semplicità d’uso per cui sono stati progettati. Il loro unico scopo è stato assolvere ad una funzione nel modo migliore possibile, non di apparire per la loro grazia o eleganza ricercata.

“Vestire” gli oggetti
Con tali presupposti, si deduce che il “Designer Anonimo” si avvicina molto allo stilema del “Buon Inventore” di prodotti realmente utili, estremamente comprensibili ed esaustivi nella semplicità d’uso. Oggi sono numerosi i designer che operano un vero e proprio restyling formale di molti di questi oggetti, con lo scopo di regalare loro un “vestito formale” contemporaneo, oppure dandone una nuova lettura funzionale, magari insolita e surreale, o per ironizzare rispettosamente sulla loro “inconsapevolezza” d’essere grandi intuizioni. Forse è questo il vero omaggio che meritano gli “oggetti anonimi”, piuttosto che una sterile trattazione filosofica del loro valore e dei loro contenuti.

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